(La versione letta a lezione era più breve per ragioni espositive, questa è la versione completa)
Lo scriba di Primo Levi
Due mesi fa, nel settembre 1984, mi sono comprato un elaboratore di testi, cioè uno strumento per scrivere che va a capo automaticamente a fine riga, e permette di inserire, cancellare, cambiare istantaneamente parole o intere frasi; consente insomma di arrivare d'un colpo ad un documento finito, pulito, privo di inserti e di correzioni. Non sono certo il primo scrittore che si è deciso al salto. Solo un anno fa sarei stato giudicato un audace o uno snob; oggi non piú, tanto il tempo elettronico corre veloce. Mi affretto ad aggiungere due precisazioni. In primo luogo: chi vuole o deve scrivere può continuare benissimo con la biro o con la macchina: il mio gadget è un lusso, è divertente, anche entusiasmante, ma superfluo. In secondo, a rassicurare gli incerti e i profani: io stesso ero, anzi sono tuttora, mentre qui scrivo sullo schermo, un profano. Di cosa avviene dietro lo schermo ho idee vaghe. Al primo contatto, questa mia ignoranza mi umiliava profondamente; è accorso a rinfrescarmi un giovane che paternamente mi fa da guida, e mi ha detto: - Tu appartieni alla austera generazione di umanisti che ancora pretendono di capire il mondo intorno a loro. Questa pretesa è diventata assurda: lascia fare all'abitudine, e il tuo disagio sparirà. Considera: sai forse, o ti illudi di sapere, come funziona il telefono o la TV? Eppure te ne servi ogni giorno. E al di fuori di qualche dotto, quanti sanno come funziona il loro cuore o i loro reni? Nonostante questa ammonizione, il primo urto con l'apparecchio è stato pieno d'angoscia: l'angoscia dell'ignoto, che da molti anni non provavo piú. L'elaboratore mi è stato fornito col corredo di vari manuali; ho cercato di studiarli prima di toccare i comandi, e mi sono sentito perduto. Mi è parso che fossero scritti apparentemente in italiano, di fatto in una lingua sconosciuta; anzi, in una lingua beffarda e fuorviante, in cui vocaboli ben noti, come "aprire", "chiudere", "uscire", vengono usati in sensi insoliti. C'è sí un glossario che si sforza di definirli, ma procede all'inverso dei comuni dizionari: questi definiscono termini astrusi ricorrendo a termini famigliari; il glossario pretende di dare un nuovo senso a termini falsamente famigliari ricorrendo a termini astrusi, e l'effetto è devastante. Quanto meglio sarebbe stato inventare, per queste cose nuove, una terminologia decisamente nuova! Ma ancora è intervenuto il giovane amico, e mi ha fatto notare che pretendere di imparare a usare un computer sui manuali è stolto quanto pretendere di imparare a nuotare leggendo un trattato, senza entrare nell'acqua; anzi, mi ha precisato, senza neppure sapere cos'è l'acqua, avendone solo sentito vagamente parlare Mi sono dunque accinto a lavorare sui due fronti, verificando cioè sull'apparecchio le istruzioni dei manuali, e m'è subito tornata a mente la leggenda del Golem. Si narra che secoli addietro un rabbino-mago avesse costruito un automa di argilla, di forza erculea e di obbedienza cieca, affinché difendesse gli ebrei di Praga dal pogrom; ma esso restava inerte, inanimato, finché il suo autore non gli infilava in bocca un rotolo di pergamena su cui era scritto un versetto della Torà. allora il Golem di terracotta diventava un servo pronto e sagace: si aggirava per le vie e faceva buona guardia, salvo impietrirsi nuovamente quando gli veniva estratta la pergamena. Mi sono chiesto se i costruttori del mio apparecchio non conoscessero questa strana storia (sono certo gente colta e anche spiritosa): infatti l'elaboratore ha proprio una bocca, storta, socchiusa in una smorfia meccanica. Finché non vi introduco il disco-programma, l'elaboratore non elabora nulla, è una esanime scatola metallica; però, quando accendo l'interruttore, sul piccolo schermo compare un garbato segnale luminoso: questo, nel linguaggio del mio Golem personale, vuol dire che esso è avido di trangugiare il dischetto. Quando l'ho soddisfatto, ronza sommesso, facendo le fusa come un gatto contento, diventa vivo, e subito mette in luce il suo carattere: è alacre, soccorrevole, severo coi miei errori, testardo, e capace di molti miracoli che ancora non conosco e che mi intrigano. Purché alimentato con programmi adatti, sa gestire un magazzino o un archivio, tradurre una funzione nel suo diagramma, compilare istogrammi, perfino giocare a scacchi: tutte imprese che per il momento non mi interessano, anzi, mi rendono malinconico e immusonito come quel maiale a cui erano state offerte le perle. Può anche disegnare, e questo è per me un inconveniente di segno opposto: non avevo piú disegnato dalle elementari, e trovarmi adesso sotto mano un servomeccanismo che fabbrica per me, su misura, le immagini che io non so tracciare, e a comando me le stampa anche sotto il naso, mi diverte in misura indecente e mi distoglie da usi piú propri. Devo far violenza a me stesso per "uscire" dal programma-disegno e riprendere a scrivere. Ho notato che scrivendo cosí si tende alla prolissità. La fatica e il tempo, quando si scalpellava la pietra, conduceva allo stile "lapidario": qui avviene l'opposto, la manualita è quasi nulla, e se non ci si controlla si va verso lo spreco di parole; ma c'è un provvido contatore, e non bisogna perderlo d'occhio. Analizzando adesso la mia ansia iniziale, m'accorgo che era in buona parte illogica: conteneva un'antica paura di chi scrive, la paura che il testo faticato, unico, inestimabile, quello che ti darà fama eterna, ti venga rubato o vada a finire in un tombino. Qui tu scrivi, le parole appaiono sullo schermo nitide, bene allineate, ma sono ombre: sono immateriali, prive del supporto rassicurante della carta. "La carta canta", lo schermo no; quando il testo ti soddisfa, lo "mandi su disco", dove diventa invisibile. C'è ancora, latitante in qualche angolino del disco-memoria, o l'hai distrutto con qualche manovra sbagliata? Solo dopo giorni di esperimenti "in corpore vili" (e cioè su falsi testi, non creati ma copiati) ti convinci che la catastrofe del testo perduto è stata prevista dagli gnomi gentili che hanno progettato l'elaboratore: per distruggere un testo occorre una manovra che è stata resa deliberatamente complicata, e durante la quale l'apparecchio stesso ti ammonisce: "Bada, stai per suicidarti". Venticinque anni fa avevo scritto un racconto ["Il Versificatore", da "Storie naturali", Einaudi - N. d. M.T.] poco serio in cui, dopo molte esitazioni deontologiche, un poeta professionale si decide a comprare un Versificatore elettronico e gli delega con successo tutta la sua attività. Il mio apparecchio per ora non arriva a tanto, ma si presta in modo eccellente a comporre versi, perché mi permette innumerevoli ritocchi senza che la pagina appaia sporca o disordinata, e riduce al minimo la fatica manuale della stesura: "Cosí s'osserva in me lo contrappasso". Un amico letterato mi obietta che cosí va perduta la nobile gioia del filologo intento a ricostruire, attraverso le successive cancellature e correzioni, l'itinerario che conduce alla perfezione dell'Infinito: ha ragione, ma non si può avere tutto. Per quanto mi riguarda, da quando ho posto freno e sella al mio elaboratore ho sentito attenuarsi in me il tedio di essere un Dinornis, un superstite di una specie in estinzione: l'uggia del "sopravvissuto al suo tempo" è quasi scomparsa. Di un incolto, i Greci dicevano: "Non sa né leggere né nuotare"; oggi bisognerebbe aggiungere "né usare un elaboratore"; non lo uso ancora bene, non sono un dotto e so che non lo sarò mai, ma non sono piú un analfabeta. E poi, dà gioia poter aggiungere un item al proprio elenco dei "la prima volta che" memorabili: che hai visto il mare; che hai passato la frontiera; che hai baciato una donna; che hai destato a vita un golem.
(da Primo Levi "L'altrui mestiere" - Einaudi)
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